Il silenzio del piazzale, che prima era un suk rumoroso e adesso è un luogo di silenzio e circospezione. Niente capannelli con colleghi e fornitori, tante mascherine alle bocche, mani guantate e i muletti e le pezze usati come distanziatori. Sono le immagini di una fabbrica al tempo del coronavirus. Le sta vivendo e le ha raccontate in questo testo che vi proponiamo Emanuele Grandi, 48 anni, figlinese, magazziniere in un lanificio pratese, ma anche scrittore, autore di due libri usciti nel 2018: “Amarilla. Appunti di un viaggio a sei zampe” e “La rupe degli sguardi lontani”, entrambi editi da Morphema Editrice ed entrambi ispirati dal suo amore per i cani.
Di seguito il testo di Emanuele Grandi, autore anche della foto che accompagna l’articolo.
È molto strano per me lavorare in quella Prato che non si ferma, quella della lana e della stoffa, in questi giorni di Coronavirus.
La mascherina è diventata obbligatoria e oltre a limitare i contagi sembra anche inibire la voglia di parlare: nel piazzale, che in tempi di lavoro normali è affollato e rumoroso come un suk, ora si evitano capannelli, si scarica e si ricarica la merce più velocemente possibile per tornare in magazzino lontani da altre persone; quelle poche parole che si scambiano vertono sugli aggiornamenti della pandemia -c’è sempre qualcuno che ha gli ultimi dati- o sulle arzigogolate teorie riguardanti il complotto che ci sarebbe dietro al Covid-19 e che il solito ben informato mette a nostra disposizione.
Si rispettano le distanze in modo estremamente preciso: il tessitore porge l’avviatura al tecnico che la prende e la maneggia cautamente con le mani guantate, specialmente dopo le controverse notizie sul tempo di permanenza del virus sugli oggetti.
Anche fra noi magazzinieri si mantengono le distanze, facilitati dal muletto o da una pezza in spalla che tiene lontano chiunque, anche in tempi nei quali la salute non è a rischio.
Non si alza la voce, merito delle mascherine, e questo è una grossa novità nel piazzale, e si guarda con un certo sospetto l’arrivo di camion che vengono da lontano e dai quali scendono autisti rigorosamente muniti di mascherine e guanti: a me fa impressione vedere il piazzale nel quale tutti ci muoviamo in silenzio e con il viso coperto dalle mascherine, perché non mi sembra di essere a lavorare in un lanificio ma in un luogo diventato improvvisamente pericoloso, o perlomeno più pericoloso rispetto a poche settimane fa.
Quando mi preoccupavo di non far incidenti col muletto, di non tirarmi addosso una cassa di filato o di non veder schizzare fuori un topo, non certo di qualcosa di invisibile e così rischioso.
Ogni tanto, dalla fabbrica che si trova davanti al piazzale e che è chiusa da metà gennaio, esce un cinese che ci porta delle mascherine: sorride, mi dice che gli arrivano dalla Cina e sono il modo con il quale mi ringrazia di piccoli favori che gli abbiamo fatto con il nostro muletto; mi saluta e scompare nel suo magazzino, salutandomi a distanza.
Finisce la giornata e con il viso segnato dalla mascherina mi avvio a buio verso casa, percorrendo ogni sera la stessa strada come se questo tragitto fosse il più sicuro; viaggio su strade deserte e silenziose, incrociando poche auto o qualche autobus vuoto che rende ancora più lugubre quello che vedo, mentre alzo il volume dell’autoradio per non sentire il silenzio di una città spaventata.
“Passerà anche questa”, penso mentre attraverso la mia città che mai avevo visto così e con solo tanta voglia di arrivare a casa prima possibile.
Emanuele Grandi
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