27 Gennaio 2024

Dal quadro comprato a sedici anni fino a Moore: Giuliano Gori, l’arte e Prato

Le "firme" lasciate in città dal grande collezionista d'arte contemporanea, fra i padri del museo Pecci


 

Aveva trasferito a Celle, periferia di Pistoia, il luogo dove vivere e a Calenzano la sede del lavoro. A Prato, dove era nato e da cui avrebbe tratto lo spirito imprenditoriale che applicò ad ogni aspetto della vita, ha lasciato gli indelelibili segni d’arte di cui è punteggiata la città. Dal magnifico Moore in piazza San Marco, simbolo della città moderna, alla scultura che completa con tratto contemporaneo gli stili impressi dalla storia su piazza del Comune. Fino alla collezione delle opere di Jacques Lipchitz allesite nel Museo civico e al nuovo assetto presbiteriale del Duomo di Prato, (altare, ambone e candelabro) progettato da Robert Morris oltre alla scultura Quattro per Donatello per il chiostro della cattedrale.

L’altare di Morris in cattedrale

Il segno più identitario e definitivo, resta tuttavia il museo Pecci di cui fu ispiratore, contribuendo a dare forma e sostanza all’idea del cavalier Enrico di donare quella struttura alla città.

Perché Giuliano Gori ha mantenuto fino all’ultimo una duplice dimensione dell’essere uno dei più importanti protagonisti al mondo dell’arte contemporanea. La dimensione internazionale e globale che lo ha visto circondarsi di artisti di ogni provenienza, per riceverne tracce indelebili delle rispettive produzioni. E quella locale, che lo ha visto profondere soprattutto nella sua Prato i segni di un talento che non lasciava scoperto nessun aspetto del fare arte a cavallo fra il secondo e il terzo millennio. Gori affiancava alla sensibiità nell’individuare artisti in boccio, la capacità relazionale di intrecciare amicizie con quelli affermati. Ad entrambe aggiungeva la capacità persuasiva di muovere fondazioni, banche, governi ad ogni livello al sostegno dell’arte del presente e del futuro. Muovendo di fatto un’intera città a seguirlo nella visionaria idea di piazzare Moore nei giardini di piazza San Marco.

Forma squadrata con taglio di Henry Moore

Perché accanto alla dimensione cosmopolita Gori non ha mai smesso di coltivare quella locale per la città in cui nacque e dove, adolescente, palesò talento per l’arte nel giorno in cui il padre commerciante di cancelleria lo spedì da un cliente per una consegna. E fu ricevuto da un uomo dalla spolverina tempestata di colori, una tela sul cavalletto ed altre appese al muro. il colpo di fulmine. Diego Fanciullacci, il pittore che lo accolse, si offrì  di donare un’opera per premiare la meraviglia e la passione in boccio di quel ragazzo. Lui scelse un panorama e volle pagarlo, coi suoi risparmi. Primo acquisto di una carriera infinita, primo tassello di una collezione sterminata per quantità e originalità dei pezzi che verranno. Pagare, acquistare. Giuliano mostrò subito senso degli affari. Capì che l’arte dei tempi moderni non era solo carmina, pane dello spirito ma anche panem, pane del corpo. Soldi, ricchezza.

Giuliano Gori

Prato gli trasmise il senso degli affari che confermò, ancora ragazzo, trovando nella Prato lacerata dalla guerra cinquantamila scatole di cartone per il funzionario dello Stato americano arrivato a comprare coperte a Prato, come gesto concreto di aiuto alla ricostruzione del Paese. Giuliano guadagnò un milione. Per incassarlo, essendo minorenne, toccò al padre accompagnarlo in banca e dal giudice, per quella pratica che la legge non consentiva a un ragazzo di sbrigare da solo.

Giuliano non si frenò nemmeno davanti alla cautela poco “pratese” che il padre Vitaliano esibiva nel proprio commercio. Ampliò gli affari di famiglia convincevdo i tabaccai prima di Prato, poi di tutta la Toscana a vendere quaderni che fino ad allora erano smerciati solo nelle cartolerie, e lui riforniva comprando dalle principali cartiere. Un piccolo re Mida che, influenzato dall’economia e dallo spirito del luogo, si dedicò al tessile, posizionandosi a valle della filiera, nel commercio all’ingrosso dei tessuti che a acquistava nei lanifici, fra le novità o le rimanenze dei magazzini. Lana, lana. Prato lavorava solo lana e lui, ventenne, decise la sterzata. Cotone, il cotone trattato allora come oggi in Lombardia, ma anche a Bologna e al Sud. Comprava e rivendeva. Il bernoccolo per l’arte lo portò a unire la ditta a una musa: quella aggiunta solo di recente alle nove universali create dai greci. Il cinema. Gori tessuti forniva gli scenografi e i costumisti americani di stoffe per arredi e abiti del set.

Un business nel business, coltivato mentre il Comune di Prato, con straordinaria lungimiranza, gli affidava la presidenza della commissione istituita per realizzare un museo di arte contemporanea in città.

Il museo Pecci

Il conto in banca accumulava denari, mentre la casa di piazza sant’Agostino accumulava opere d’arte che Giuliano comprava o riceveva in dono dagli autori. La casa non basta e a quarant’anni, nel 1970, Giuliano si trasferisce con famiglia e opere a Celle, nella fattoria agricola in cui lui aveva intravisto spuntare installazioni d’arte, vicino o al posto di alberi, piantagioni e bosco. Marmi, metalli intrecciati secondo la fantasia di artisti che sbocciano in una natura incantevole.

Giuliano Goru by Andy Wahrol, 1974

Quasi come risarcimento, per aver lasciato la città natale, osservando la rassegna di Henry Moore a Forte Belvedere a Firenze, Gori chiede di mantenere in Toscana un’opera del grande scultore inglese. E convince gli industriali ad acquistare la Forma squadrata con taglio per farne,, nel 1974, la porta ideale della nuova città in piazza San Marco, con la vista che attraverso il foro si perde sulla direttrice stazione-viale Piave e viceversa. I soldi sono pronti. Il consenso del Comune pure, restano, ma solo .lper poco, scetticismo e ironie dei pratesi per quel “buco” sinuoso che sembra modellato dal vento.

Proprio al vento sarebbe stato dedicato un altro monumento che Gori avrebbe richiesto nel 1987 ad un altro grandissimo della scultura contemporanea: l’israeliano Dani Karavan. Marmo proiettato in cielo da Poggio Castiglioni, sommità della Calvana che guarda Firenze, continuamente accarezzata o tormentata, a seconda delle stagioni, dalla tramontana cara a Malaparte. Corde tese fra i marmi avrebbero prodotto un suono costante: la musica, anzi, la voce del vento. Impatto ambientale e timori di un’urbanizzazione della Calvana che prendesse il via dal monumento ne impedirono la nascita da parte di politici e amministratori.

Karavan dovette rinunciare di nuovo – e stavolta in toto – a un progetto pratese dopo che nel 1978 (pure allora ispirato da Gori), unì con un raggio laser verde le rassegne personali allestite nel Castello dell’Imperatore a Prato e a Forte Belvedere a Firenze. Tema comune: la pace, declinato in due luoghi militari e difensivi, fra città rivali. Il laser che univa. Un simbolo attuale anche per questi tristissimi giorni del 2024 di guerre in corso, allora interrotto per i disturbi che il raggio avrebbe provocato per gli aerei in decollo e sbarco a Peretola.

Un’originale installazione a Villa di Celle

Fanciullacci, Moore, Lipchitz, Morris, Karavan, il Pecci di cui Giuliano Gori scelse il primo direttore Amnon Barzel sono i lasciti permanenti o temporanei di Gori sulla città dove nacque e da dove si raggiunge in pochi minuti la Fattoria di Celle, tempestata di opere e annunciata lungo la strada dall’immensa “cipolla” metallica e rosea che crea un ossimoro fra il proprio nome, “Il Grande Ferro” e quello dell’autore, Alberto Burri. Lì, lunedì pomeriggio 29 gennaio, l’addio a Giuliano Gori. In quel “museo vivente” di cui andava orgoglioso perché era “il più visitato dai musei del mondo” che lì inviavano direttori e curatori ad ispirarsi. Una scuola, insomma. Che aggiunge un appellativo ai molti che Giuliano Gori ha assommato nella sua lunga vita: quello di maestro. Maestro d’arte, maestro di musei.

 

 

Buongiornoprato@tvprato

disegno di Marco Milanesi

Subscribe
Notificami
guest
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments