Teresa Moda, dall’immmensa tragedia all’educazione a rispettare le regole
Dopo i sette morti di dieci anni fa non più incidenti di tale gravità. Le istituzioni passate dalla repressione all'insegnamento della legalità
Il giorno del rogo di Teresa Moda, nel quale dieci anni fa morirono sette persone la mia reazione fu di guardare al passato e constatare con sollievo che erano occorsi ventiquattro inverni perché si verificasse un incidente tanto grave, ma anche così prevedibile, consequenziale a condizioni fortemente esposte a pericoli di ogni sorta. Fra i quali restare vittime di un incendio nelle poche ore destinate al sonno che interrompe un lavoro massacrante.
Il paradosso fu che quelle morti non erano avvenute nei capannoncini del Macrolotto zero, fabbricati prima della guerra, con le travi in legno i muri friabili, i cavi a vista e niente uscite di sicurezza, che il tessile tradizionale aveva abbandonato e i cinesi avevano riempito come api in un vecchio alveare. In una data imprecisa, che stabilivamo nel 1989. No. Succedeva nel 2013, quando le aziende cinesi, grazie a profitti realizzati a costi bassissimi e ai lavoratori schiavi si erano trasferite in un modermo capannone del Macrolotto 1. Anche questo abbandonato dal tessile tradizionale, non per esaurimento di strutture obsolete, ma per convincimento.
La rendita offerta dai cinesi infatti era fin troppo concorrenziale rispetto agli aleatori profitti da lavoro. Quello di via Toscana è un capannone costruito poco prima del 1989, anno cruciale per l’economia e la vita del distretto pratese. L”anno in cui pochi cinesi sbarcano come gli europei dalle caravelle di Colombo e per Prato la vita non sarà più la stessa.
Come ci si era illusi non fosse più la stessa la vita dei cinesi affrancata dai tuguri di via Pistoiese, di San Paolo e trasferiti in quelle fabbriche moderne, dotate di uscite di sicurezza, estintori, costruite secondo le regole.
Invece, dentro il nuovo guscio l’alveare non cambiava. Una distesa di macchinari taglia e cuci, poi un framezzo in cartongesso che nascondeva cucina abusiva e giacigli nei quali dormire non era ristoro, ma pausa di una vita a senso unico.
Lo scenario dei mille pronto moda cinesi di Prato è tagliare e cucire, partendo dalla condizione di ignudi del mondo, poverissimi senza niente se non un’agricoltura dove, in patria, spezzarsi la schiena a cottimo con la speranza di un riscatto, qua. A migliaia di chilometri, ad assemblare camicie, magliette e pantaloni per chi ha redditi bassi e un lavoro dove è importante presentarsi in ordine. Oppure per chi di abiti ne ha già, ma ne vuole di nuovi, spendendo pochi dollari, pochi euro, poche delle monete dai nomi antichi che gli stati dell’Est non hanno abbandonato, aderendo all’Unione europea con una mano ben stretta a una illusoria maniglia di sicurezza. Vestire low cost, nei grandi magazzini luminosi d’Europa: ecco. il motore che ha portato qui migliaia di cinesi a spaccarsi la schiena alle taglia e cuci e sette di loro a morire bruciati nel sonno, dieci anni fa.
In quel 2013 Instagram si era affacciato al mondo dei ragazzini, relegando Facebook a pensionato per quei vecchioni dei boomers. Foto, non parole. Slogan come comandamenti. Uno, inquietante, si abbatterà sulla Chinatown pratese come una benedizione per alcuni e l’ennesima condanna per molti. Recita ‘ Mai due volte su Instagram con la medesima maglietta, camicia, tunichetta, pantalone, outfit. Cappellino. Sennò sei sfigato. Servono capi a prezzi infimi da usare il tempo di una vita, cioè di una foto e non reindossare più in nessun selfie. Liberarsene, scambiarli come doppioni di figurine. E poco importa se dopo una stagione o solo un mese saranno logori e inservibili e un giorno non lontano finiranno ad alimentare la montagna di stracci dalle fibre e i coloranti tossici che il Kenia e il Cile hanno accettato di far lievitare nei rispettivi deserti.
All’alba di quegli abiti da piccola parata davanti a un telefonino ci sono i cinesi di Prato. Gli avidi padroni che accettano la sfida di produrre a meno e i reietti schiavi che non possono opporsi. Reagire. Rifiutarsi. Scappare. Nei giorni successivi al rogo di Teresa Moda un artista cinese raccontava il destino di chi, avendo ripagato al datore di lavoro le spese per il viaggio in Italia, aveva chiesto un salario migliore, in denaro e non più solo vitto e alloggio. Ed era stato licenziato, sostituito da un nuovo schiavo. E vagava di slot machine in slot machine cercando fortuna. Per evitare l’umiliazione più inaccettabile: tornare in patria senza aver fatto successo. Ripresentarsi ai parenti che gli avevano offerto il poco che hanno perché tornasse ricco e felice o almeno ricco.
Dieci anni dopo, cosa resta di Teresa Moda? Anzitutto il sollievo che non è più successa una tragedia del genere. Poi, che le autorità hanno abbandonato la via della repressione punitiva e sanzionatoria, imboccando la strada lunga e impervia dell’educazione. Non più blitz spettacolari con immediati arresti, sigilli, sequestri e schiavi in lacrime. Senza un futuro. Senza lingua. Senza un tetto. Disperati per una crisi che era anzitutto di valori. Agli interpreti che riuscivano a dialogarci dicevano che loro stavano lavorando e non si fa mai del male, se si lavora.
Le intenzioni sono ottime. Vanno miscelate alla conoscenza di regole e diritti mai appresi, né in patria, né qui. E puniti i padroni, consapevoli di tutto e disposti a cambiare niente.
Il nuovo verbo imposto dalla Regione Toscana, per una volta meritevole di apprezzamenti in città, è di controllare, verificare le irregolarità una per una, dare tempi per mettersi in regola e tornare a controllare. Consentendo le attività finalmente a norma, bloccando quelle non a posto o assegnando nuove proroghe fra sanzioni e sensazione che la strada intrapresa dall’imprenditore sia comunque quella giusta. Altrimenti, bastone con sequestri e chiusure. Ma molti hanno capito, i cinesi passano ad emersione, con lo Stato che preleva ricchezze in tasse e fa spendere per l’osservanza delle regole. Meno profitti super per pochi, più sicurezza e vita per molti. Dopo gli esordi nei tuguri al Macrolotto zero e l’apparente ordine al Macrolotto 1 i cinesi hanno realizzato una nuova città del pronto moda al Macrolotto 2. Di là dal ponte Giovanni Paolo II scintillio di insegne, show room, un bar alla moda. Apparentemente tutto bellissimo. Il quarto decennio dell’era cinese a Prato è iniziato così. A chi controlla, all’unita operativa da dieci anni guidata da Renzo Berti, dirigente Asl con la solida esperienza amministrativa di chi è stato per dieci anni sindaco di Pistoia, il compito incessante di individuare se dietro le insegne e l’apparenza ci siano sicurezza e regole rispettate. O ancora l’alveare oscuro di tempi che speravamo superati per sempre.