Mi è capitato in tempi recenti di trascorrere un’intera giornata ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale di Prato, raggiunto in ambulanza alle sei del mattino, lasciato per dimissioni da parte dei medici l’indomani alle sette. Un banale malore, con avvisaglie potenzialmente gravi, mi consentì un’esperienza che arricchisce come persona e come cittadino e porge al cronista l’occasione di un racconto vissuto e non riferito. Ho volutamente ritardato la pubblicazione, per evitare la riconoscibilità delle persone delle quali riferisco.
All’arrivo mi assegnano una barella lungo un corridoio, gli abiti, fortunatamente leggeri, sono ripiegati nello zaino sul pavimento. Molto scomodo, ma poco dopo le otto sono già nel siluro della tac ed è quello che conta. Prima delle nove mi dicono che non ho niente di gravissimo, ma dovrò restare in osservazione. A occhio, siamo un centinaio, noi pazienti sistemati nelle barelle del reparto triage. Per i pratesi meno giovani, lo stanzone evoca per promiscuità la mitica Corea del Misericordia e Dolce anni Sessanta e Settanta, ma con i soffitti molto più bassi. Per pura pìetas in due o tre zone il personale ha sistemato in linea perimetrale le tende arancioni che si aprono ai lati di ogni lettiga, realizzando pareti di stoffa per “camere” da sei o otto posti. Si crea così un minimo di intimità e comunità, fra ricoverati ci si guarda negli occhi e si riesce a tener separati uomini e donne.
Ai bagni, sempre puliti, si fa per qualche minuto la fila.
Io vengo spostato in un altro corridoio da cui passa in continuazione il personale. Se allungo le gambe, infermiere e carrelli impattano i miei piedi, che fuoriescono dalla barella. Chiedo scusa, si scusano loro. Per non intralciare più tengo le gambe a compasso, sotto il lenzuolo. Alla mia sinistra, a un metro e mezzo di distanza, un anziano respira grazie a un macchinario. Il personale è tutto per lui. Lo chiamano per nome, gli danno del tu, tradendo rispetto e affetto, più che obbedienza ai nuovi criteri professionali che vedono abbattere ogni formalità nel dialogo operatori-paziente. Lui annuisce col capo, il respiro sempre più grosso. Lo avvisano che hanno trovato un letto in reparto e lo trasferiranno, ma forse è un placebo. Arriva il medico, la situazione si fa difficile e viene distesa la tendina della sua lettiga. Dico che se servono aria e spazio di manovra, tirino pure la tendina della mia, separino me da lui, non lui da me.
Ricevo controlli medici, il pranzo, la fugace visita di mia moglie. La flebo costantemente al braccio. Il wifi funziona e navigo ovunque, da quella scialuppa.
Al capezzale del mio vicino si forma un consulto medico, arriva la figlia. Poco dopo, sento lei chiamare i familiari, uno a uno. Impossibile, non ascoltare, dimentico tutto, tranne una cosa: spiegando dove sia l’ospedale, presumibilmente ai figli, la signora usa per due volte come “bussola” l’Omnia center, da lasciare a destra in motorino proseguendo sulla tangenziale: ecco qual è il nuovo campanile, il nuovo centro ideale della città. La multisala. Anche per raggiungere un edificio grande ed importante come l’ospedale. Infatti, poco dopo arrivano due ragazzi: alti, jeans e magliette con grandi scritte, chiaramente sottratti ai giochi e agli amici a scuole chiuse. Confabulano coi medici. Voci basse. S’implorano brandelli di speranza. Poi le persone col camice si allontanano e da dietro la tendina sento bisbigliare, muoversi labbra. Si prega. Immagino carezze, baci sulla fronte. E immagino che si stringano le mani nodose con le vene grosse di quell’uomo, che di certo ha lavorato anche la terra. ed è certamente pratese, per il cognome che ho udito al mattino e per quel nome “da vecchi” che non si usa più almeno da prima della guerra.
Un albero forte, che nell’attimo in cui le radici cedono ha la grazia di aver riunite attorno a sé tutte le fronde cresciute nel tempo.
Dopo forse un’ora anche la famiglia se ne va. Gli infermieri riaprono la mia tendina, quelle del vicino sono chiuse su ogni lato, per isolarlo nel periodo di osservazione legale. La stoffa arancione avvolge la sua lettiga come pareti di una camera. La morte in mezzo ai cento che, ognuno per sé, si aggrappano alla vita. Succede, succederà ancora. Ma non dovrebbe, se questo è un uomo, se questo è un ospedale.
In serata mi trasferiscono in fondo al corridoio. Il letto dell’anziano resta isolato a destra e a sinistra. Mi praticano le ultime cure, non avverto più sintomi. M’informo se fossero al lavoro una dottoressa amica ed il primario. Lei in ferie, lui nel giorno di riposo. Ho da sempre il numero di lui, ma non ci sentiamo da anni. Gli invio un messaggio per ringraziare del lavoro che vedo svolgere in condizioni difficili. Gli ricordo che ci conoscemmo quarant’anni fa, quando lui giocava mediano e io in tv parlavo della sua squadra. Il primario mi rimprovera per non averlo avvisato prima, obietto che lui è in riposo, i suoi colleghi sono bravissimi e non ho bisogno di niente. Mi riferisce di essersi collegato più volte dal pc di casa durante la caldissima giornata, per controllare i casi gravi, consultarsi col personale, farsi consegnare il lavoro di domani. Pur essendo periodo di ferie, doveva osservare il riposo settimanale. Lavora, pur non lavorando ufficialmente. Gratis.
Passata mezzanotte una dottoressa mi annuncia che può dimettermi subito. Preferisco passare lì la notte, non si sa mai. Ok, ma alle sette dovrò andarmene. E non avrò la colazione.
Uscendo, incrocio ambulanze che accompagnano nuovi pazienti. L’ospedale è un fiume che non riceve più e la sala triage del pronto soccorso è la cassa di espansione in cui tutto si convoglia. Il personale cura i corpi e, come si è visto con il mio vicino, ha riguardo per le anime. Assicurando umanità in condizioni che porterebbero all’abbrutimento.
In questa estate 2023, sono partiti i lavori della nuova palazzina da cento posti (sarà intitolata a Luigi Biancalani), il potenziamento che la città unanimemente chiedeva da molto prima dell’inaugurazione dell’ospedale, tenendo conto della popolazione effettiva del territorio. Il presidente della Regione Toscana Rossi non volle però aggiungerla a progetti e cantieri aperti. Sarà pronta nel 2025, sarà un sollievo, ma non basterà a raggiungere lo standard di tre posti letto per mille abitanti.
Al pronto soccorso si continuerà a curarsi oltre le necessità dell’emergenza e inesorabilmente anche a morire. Fra pareti di stoffa arancione. Stretti in una lettiga.
BuongiornoPrato@tvprato.it
disegno di Marco Milanesi
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