Gabellini e la rivista “Progress”, simboli dell’età dell’oro pratese

Piero Ceccatelli ricorda il manager dell'allora Cassa di Risparmio di Prato: a lui, nel 1983, Bambagioni affidò la direzione del prestigioso periodico


Carlo Gabellini era un vero pratese, pur non essendolo nato. Lo diventò a poco meno di trent’anni quando, con in tasca la laurea in Scienze Politiche e il sorriso sornione sotto i baffi venne assunto alla Cassa di Risparmi e Depositi di Prato. Un’assunzione diretta, “a chiamata”, per la quale s’inalberarono i sindacati interni, che pure registravano felici l’aumento di organico della banca, che cresceva impetuosa assieme alla città, moltiplicando volumi, impieghi, filiali e scrivanie. Quel giovane di idee laiche, cresciuto al Cesare Alfieri sotto l’ala di Spadolini, aveva colpito il cattolico e democristiano presidente Silvano Bambagioni, che ne colse l’intelligenza vivida e l’arguzia molto toscana e lo impiegò al centro studi della banca. In quell’ufficio si traduceva in numeri il febbrile lavoro di filature, ritorciture, tessiture, tintorie, rifinizioni; diventava cifre l’andirivieni di Ape, camion e furgoni strabordanti di subbi, di casse, di pezze. Un brulichio di cui tutto si conosceva a Prato, ma quasi niente oltre Campi, Calenzano, Montale, Agliana. Un alveare ben noto ai distretti tessili inglesi, francesi, tedeschi e spagnoli incapaci di reggerne la concorrenza e costretti a chiudere, ma pressoché ignoto a Roma, Milano e perfino a Firenze. Bambagioni decise di fondare una rivista – che fosse ambasciatrice senza confini della banca e di Prato. Il nome era tutto un programma: Progress. Direttore lo stesso Bambagioni, direttore responsabile Amerigo Giuseppucci, capo dell’ufficio studi. In redazione, coi responsabili delle cronache di Nazione e Avvenire – Umberto Cecchi e Roberto Casanova, Pietro Vestri, Marco Tempestini e il giovane Gabellini. Progress ospitava fondi di Giulio Andreotti, corrispondenze dall’America di grandi firme del giornalismo, articoli di Folco Quilici e Antonino Zichichi, ma non trascurava negozi e artigiani del centro di Prato, senza mai scadere di tono. Dal 1983 Gabellini lo firmò come responsabile e continuò dopo l’uscita di Bambagioni e l’arrivo alla presidenza di Mauro Giovannelli. Gli ultimi numeri, con la banca agli sgoccioli di autonomia, ebbero come direttore Beppe Manzotti.
Carlo Gabellini era intanto diventato pratesissimo, per osmosi con una città che tutti abbracciava e includeva. Figuriamoci un toscanaccio vispo, di battuta pronta e franchezza dichiarata come lui. Doti che le successive proprietà dell’istituto e i ruoli sempre più asettici assegnati al personale non gli consentirono più di sfoggiare nella professione. Finché la pensione raggiunta e l’avvento dei social non gli offrirono il tempo e soprattutto lo strumento per esprimersi. Non passava giorno che su Facebook non dicesse la propria, commentando notizie apparse sui siti o Televideo, riguardanti i padroni del mondo o anonimi cittadini. Sempre moderato e conservatore, mai celate le simpatie per il centrodestra e l’insofferenza verso gli Usa belligeranti, benché amici ai tempi di Progress. E poi, graffi alla sinistra e al conformismo, all’America sull’orlo della bancarotta, ma capace di tenerlo nascosto manipolando media e coscienze. E la guerra in Ucraina, di cui metteva in luce più le responsabilità di Washington che quelle di Mosca, al punto che diventava impossibile non rispondergli e ingaggiarci scontri epistolari. Sempre eleganti, poco banali, mai tali da lasciare indifferenti, gli epigrammi social di Carlo Gabellini. Che dal 7 giugno aveva rallentato le pubblicazioni: era il suo modo di dirci che c’era un problema. Finché, ieri, la moglie e le figlie hanno annunciato che se n’era andato. Lo hanno fatto lì, nel suo profilo, parlando per conto di lui. Lunedi il funerale a Bolgheri, in quel lembo di Maremma carducciana, fra la ferrovia, il mare, un asin bigio e i cipressi: caparbio l’uno e schietti gli altri. Come lui.