19 Marzo 2023

“Il disegno di un bambino e tante lettere: la mia amicizia con la vedova di Marco Biagi”

Enrico Fogacci inviò alla famiglia del giuslavorista ucciso 21 anni fa il regalo ricevuto per la festa del papà. Un rapporto mai interrotto, fra letture di don Milani e l'incontro col cardinale Zuppi


“Quando mio figlio Giovanni tornò dall’asilo, portandomi il regalo realizzato per la  festa del papà, non esitai un attimo: andai alle Poste e spedii quel piccolo, simbolico oggetto a Marina Orlandi, vedova di Marco Biagi e ai suoi figli. Nella loro casa non c’era più il padre, assassinato dai terroristi. Era giusto che fossero loro a ricevere quel dono”.
Enrico Fogacci, 56 anni, di Prato, racconta così l’inizio dell’amicizia nata con la famiglia di Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse esattamente 21 anni fa,  il 19 marzo 2002,  mentre rincasava dall’università di Modena dove insegnava. Un’amicizia nata e tuttora coltivata attraverso lettere di carta scritte a mano, strumento antico e insieme attualissimo.
Fogacci, moglie e tre figli, è artigiano e gestisce con il fratello il forno panetteria fondato dal padre a Prato, appena fuori da Porta Pistoiese. La sua storia è animata da umanità e pulsioni civili.

Fogacci, perché il 19 marzo del 2004 decise di privarsi del disegno che il suo bambino aveva realizzato per lei?
“Seppi dell’omicidio di Marco Biagi, ascoltando la radio mentre di notte impastavo il pane. Ne restai profondamente scosso. Per prima cosa, pensai a quell’uomo, che stava tornando a casa in bicicletta. Inerme, bersaglio facile di folli assassini. Poi, mi chiesi perché colpire un professore universitario, padre della riforma del lavoro che stava nascendo. E ripensai all’omicidio di Massimo D’Antona, anche lui docente di diritto del lavoro, ucciso nel 1999 dalle Br”.

Perché, ricordò D’Antona?
“Sono credente e fin da bambino sono vicino con la preghiera e, per quanto possibile con l’impegno di cittadino, ai parenti delle vittime di mafia e terrorismo”.

Fin da bambino?
“Sono cresciuto negli anni di piombo. Ricordo bene il giorno del rapimento di Aldo Moro (16 marzo 1978 ndr). Andando e tornando dalla scuola Malaparte, io e Giannetto Fanelli, mio compagno di classe, recitavamo il rosario,  pregando per la sua liberazione”.

A undici anni, in genere, si pensa ai giochi, al pallone.
“Io piangevo alla notizia degli attentati, non mi facevo una ragione di tanta crudeltà. Crescendo, sono diventato devoto alla figura di Rosario Livatino. Nel cuore, sono vicino ad Adriano Sabbadin, figlio del macellaio di Mestre ucciso da Cesare Battisti, ai parenti di uomini delle forze dell’ordine, come Marinella Menchi, vedova di Fausto D’Onisi, colpito a Firenze. Mi sono interessato ai delitti Tobagi, Bachelet, Ambrosoli”.

Cosa la impressiona, di quelle tragedie?
“La solitudine che attanaglia le famiglie esauriti gli abbracci, le strette di mano, le belle parole da parte delle istituzioni, subito dopo il delitto, durante il funerale. Spento il dolore collettivo del momento, c’è una vita davanti, tutta in salita. Da affrontare senza più il padre, il marito, il figlio”.

Pensò questo anche della famiglia di Marco Biagi?
“Pensai al vuoto di affetto e di presenza che gli assassini avevano creato e cercai di riempirlo simbolicamente, spedendo il disegno che mio figlio aveva fatto per me”.

Che risposta ebbe?
“Marina Orlandi mi scrisse, ringraziandomi di aver pensato a loro. Io le scrissi di nuovo. Da allora non abbiamo più interrotto”.

Di cosa parlate?
“Delle nostre famiglie, delle nostre vite, di come abbiamo cresciuto i figli: i suoi sono più grandi e Marina mi ha dato buoni consigli. È stata insegnante, è molto attiva nel tessuto sociale bolognese. Fin dall’inizio le ho parlato di don Milani, le ho inviato e consigliato libri che l’hanno spinta ad approfondire la sua figura. Lei dice di essere rimasta colpita dalla mia spontaneità, qualche volta è preoccupata per me”.

In che senso?
“Un giorno le inviai una foto scattata con i miei collaboratori al forno, di notte. Mi vide stanco, mi invitò a non lavorare troppo”.

Mai incontrati, di persona?
“La prima volta, avvenne in modo inconsapevole. Nel 2007 porto i miei figli in visita alla sinagoga di Bologna. Passiamo da via Valdonica e ci soffermiamo sotto casa di Marco Biagi. Racconto ai bimbi l’attentato, quando il portone si apre, esce una signora che, udendo le mie parole e  passandomi vicino mi dice ‘grazie’. E se ne va. Io continuo a parlare coi miei figli”.

Poi?
“In treno, al ritorno, invio un messaggio a Marina Biagi, raccontandole l’episodio. Lei mi domanda se io indossassi un giaccone arancio, fossi con tre bimbi piccoli e mi chiede una foto”.

Risultato?
“Ero io. Era lei. Ci eravamo conosciuti visivamente, senza che lo sapessimo”.

Quando vi siete conosciuti anche di persona?
“Attorno al 2012. Marina venne in visita alla Villa Medicea di Poggio a Caiano con una gita organizzata, chiese di poter lasciare la comitiva per un po’ e ci trovammo di fronte al Duomo di Prato. Visitammo la chiesa, gli affreschi, la Madonna della Cintola, poi l’accompagnai a casa, presentandola a mia moglie Maria Luisa, a mia madre Ines, emozionatissima, ai miei bambini. La riaccompagnai al pullman col furgone della panetteria. Ci  scriviamo, in media, ogni due mesi: sempre a Natale, a Pasqua e il 19 marzo festa del papà e anniversario della morte di Marco Biagi”.

A questo punto, Enrico Fogacci chiama al telefono Marina Orlandi Biagi. In viva voce.
“Enrico – dice la signora – è un intellettuale che fa il pane. Mi ha stimolata a studiare a fondo il pensiero e l’opera di don Milani. La sua conoscenza è la parte buona della disgrazia che abbiamo subito, il segno che anche dalle cose orribili può nascere del bene. Se odio gli assassini di mio marito? No, non li odio, ma non bisogna banalizzare il male che hanno lasciato intorno a sé”.

Enrico, dopo la visita a Prato, mai più rivisti, di persona, con Marina Orlandi?
“Sì, nel luglio di alcuni anni fa, mi invitò a casa per pranzo – tortellini e olive ascolane – Poi, Marina mi accompagnò da don Matteo. Lei lo chiama così”.

Chi?
“Il cardinale Matteo Zuppi, allora arcivescovo di Bologna, oggi presidente della Conferenza episcopale italiana. Ci accolse cordialmente assieme a don Sebastiano, il segretario. L’arcivescovo mi chiese perché avessi voluto conoscerlo, gli spiegai che avevo letto i suoi libri. Poi parlammo della mia famiglia, originaria del Bolognese: i Fogacci vengono da Castiglione dei Pepoli. E gli raccontai di mio padre Riccardo, che la notte dell’attentato al rapido 904 nella galleria sull’Appennino a San Benedetto Val di Sambro, donò ai pompieri di Prato tutto il pane già sfornato per sfamare i superstiti, i soccorritori. Poi rifece l’impasto per il negozio. Era la vigilia di Natale”.

Come vi lasciaste, con il cardinale Zuppi?
“Gli espressi il desiderio di vederlo partecipare al Corteggio Storico, all’ostensione della Cintola, per la festa della Madonna , l’8 settembre (il cardinale venne a Prato per un incontro pubblico proprio all’indomani della elezione alla guida della Cei ndr). Spero di vederlo un giorno, in mezzo a noi pratesi”.

Marco Biagi, pagò con la vita l’impegno per la riforma del lavoro. Il lavoro è un tema delicatissimo, per Prato.
“Il pensiero di Biagi non è ristretto al testo della riforma. La sua opera andrebbe letta in toto e vorrei che la nostra città ne ricordasse la figura anche oltre l’intitolazione di una piazzetta, come avvenuto di recente. Sarebbe bello che la futura media library portasse il suo nome. Marina, i figli, ne sarebbero orgogliosi”.
Piero Ceccatelli