«La situazione in Afghanistan è terribile. La presenza dei talebani è davvero un incubo. Dover abbandonare tutto, casa, lavoro, vita, è una sensazione bruttissima. Da due mesi siamo in Italia, a Prato, città che ci ha accolti e dove ci troviamo molto bene». È la storia di Samir e Amal (nomi di fantasia), che insieme ai loro due bambini di 4 e 8 anni sono scappati dalla madrepatria, l’Afghanistan, e dalla furia dei Talebani. Tramite l’associazione dei Salesiani per il sociale sono arrivati a Prato e sono stati accolti in una struttura della Diocesi di Prato. La loro presenza in città ci ricorda che la realtà della guerra e delle sopraffazioni va oltre la tragica vicenda dell’Ucraina e riguarda anche altre zone, dimenticate, del mondo.
La fuga dei due coniugi è iniziata a gennaio: «mentre la mia famiglia di origine è scappata passando dal Pakistan, noi potevamo lasciare il paese solo tramite l’Iran – racconta, aiutato da un interprete, Samir -. Io sono inserito nella “lista nera” perché per lavoro ho collaborato con persone occidentali e quindi sono considerato un infedele. Ero in pericolo, non potevo più stare nel mio Paese. Siamo arrivati in Iran in macchina, lì siamo rimasti per dieci giorni in attesa del visto, che siamo riusciti ad ottenere grazie all’aiuto di una giornalista italiana. Abbiamo poi preso l’aereo e siamo partiti alla volta dell’Italia». Grazie poi ai contatti tra la giornalista e la rete dei Salesiani per il Sociale la famiglia è arrivata in città. Qui si è attivata immediatamente una rete solidale composta da un gruppo famiglie pratesi. Due di loro, Francesca Nistri e Anna Bellocchio, raccontano che la macchina dell’accoglienza è autofinanziata dagli stessi volontari pratesi che hanno dato il proprio supporto, mentre, in collaborazione con l’Opera Santa Rita, è stata gestita la parte dei documenti e la richiesta di asilo politico.
Torniamo a conoscere la storia dei due coniugi. La donna, Amal, ha 30 anni, per qualche anno ha fatto la cuoca in un istituto gestito dalla cognata, chiuso poi dal 2020 a causa della pandemia. Dal 2019 è anche attiva in un’associazione politica contro la violenza sulle donne, «movimento che esiste tuttora e con il quale collaboro a distanza – spiega -. Le prime proteste dopo l’arrivo dei Talebani le abbiamo fatte proprio con quest’associazione, gestita da mia cognata. Era il 3 settembre. I Talebani in quella data sono intervenuti. Non hanno sparato, ma con i fucili davano delle botte. Mia cognata in un’intervista rilasciata ad alcune televisioni ha denunciato l’accaduto e la sera stessa della manifestazione i Talebani hanno iniziato a chiamarla e minacciarla, tanto che è stata costretta a scappare». Dopo la cognata sono partiti il resto della famiglia di Samir, i genitori, l’altra sorella e i due fratelli. Tutti ora abitano in Italia.
Samir, che ha 35 anni, dal 2014 al 2019 ha collaborato con un’associazione di difesa in Afghanistan. Le cose non andavano bene e ha lasciato quell’impiego, «ho aperto una sartoria, all’interno della quale lavoravano 35 persone – dice –, le cose stavano andando bene, ma per i Talebani ero un infedele e quindi mi stavano cercando. Mi chiamavano in continuazione dicendo di presentarmi e che se non lo avessi fatto mi avrebbero comunque trovato. Ho anche dovuto spegnere il cellulare e togliere la sim per non farmi trovare. È stata dura. Abitavamo in un palazzo al terzo piano: più volte ho dovuto dare di nascosto dei soldi al portiere per avvertirci all’arrivo dei Talebani e darci, così, il tempo di fuggire dall’altra parte del palazzo. Prima di scappare dall’Afghanistan abbiamo dovuto cambiare quattro case, per paura di essere trovati. Abbiamo saputo che anche persone che ritenevamo amiche davano informazioni sui nostri spostamenti». Poi finalmente la fuga in Italia.
Samir e Amal stanno facendo un corso di italiano e sperano, non appena ottenuto il permesso di soggiorno, di trovare un lavoro. I due bambini vanno a scuola.
Importante e prezioso è il contributo della rete che si è creata attorno alla famiglia, «sono molte le persone che si sono rese disponibili per accogliere e supportare Samir, Amal e i due bimbi – concludono Francesca e Anna – e allo stesso tempo sono gli stessi richiedenti asilo che aiutano noi a capire quanto sia importante prendersi cura degli altri».