Sulla morte di Luana D’Orazio, giovane operaia vittima di un incidente sul lavoro, pubblichiamo la riflessione scritta da Michele Del Campo, direttore della Pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Prato
Abbiamo appena finito di festeggiare il primo maggio del lavoro e della cura che siamo stati immediatamente travolti dalla tragica morte di una giovane lavoratrice che voleva, attraverso il lavoro, costruirsi una vita dignitosa, non precaria, piena di senso per sé, la sua famiglia, la sua comunità.
Una giovane, una donna, una lavoratrice, una mamma in grado di generare e rigenerare tutte le proprie condizioni di vita, viene travolta da una macchina, da un’organizzazione del lavoro che per quanto potesse essere improntata sulla sicurezza si è dimostrata “insicura”, non adatta al punto da trascinarla verso la morte.
Non voglio addentrarmi in questioni sindacali o di magistratura e non voglio dare colpe, ma riflettere sul significato di questa morte che mi (ci) interroga perché è frutto di una cultura del lavoro in declino e quando questo avviene, si producono gli effetti più diabolici (divisivi) per l’uomo e la donna. L’insicurezza cresce e si manifesta con eventi estremi quando non riusciamo a controllare più le passioni tristi, quando non riusciamo più a vedere un futuro davanti a noi, quando cambiano i modelli organizzativi, sociali, produttivi e non riusciamo a riconoscerli e ad adattarci a essi. La destrutturazione del lavoro dettata dalla crisi, dalla continua riduzione dei costi, dalla de-professionalizzazione, dalla mala-formazione, dall’individualizzazione, dalla logica del tutto e subito, rende tutto più insicuro, più incerto, più “pauroso”, rendendoci immobili, incapaci di agire, di calcolare il “rischio” dell’azione, con la conseguenza di appiattire il pensiero, di creare angosce e di bloccarci di fronte alle difficoltà. Si pensa che tutto si possa vivere in modo individualizzato e questo accentua la dimensione dell’insicurezza al punto che non si riesce più a valutare l’importanza della relazione, del confronto, cioè di quello che mi permette di calcolare il rischio e, di conseguenza, la mia e l’altrui sicurezza.
Immagino Luana, sola nell’affrontare il lavoro, sola nel momento della tragedia. Avrà fatto certamente la formazione e avrà ricevuto anche l’informazione dal proprio datore di lavoro (come previsto dalla legge e in Italia ne abbiamo tante, troppe), ma quello che le sarà forse mancato è la relazione lavorativa, per sentirsi parte di una comunità aziendale con cui approfondire la propria condizione di vita lavorativa e non solo.
Me la immagino sola, incerta, abituata alla routine giornaliera, alla macchina a cui era legata (non fisicamente, ma come parte di sé); a quella macchina a cui doveva prestare attenzione per produrre. Pochi con cui magari confrontarsi, con cui affrontare i propri e gli altrui problemi, le proprie esperienze per rendere l’ambiente più sicuro, più tranquillo.
L’emergenza dell’inaudita morte di Luana ci mette violentemente in rapporto con una realtà che pretendiamo di rimuovere e che può precipitarci in uno stato di “eccezioni permanenti” (è capitato, potrà sempre capitare…), ma non può essere così. La sua morte non è un’eccezione, è la conseguenza del nostro modo di concepire il lavoro solo come un “fare” eliminando il “pensare”. Che cosa posso fare? Questo mi sembra il livello critico ove ci si sente soli e i buoni propositi, se non supportati da significati, da ricerca di senso, si arrestano.
Luana è stata lasciata sola da tutti noi perché ognuno era intento a soddisfare le proprie passioni in un’assenza di condivisione di orientamenti, di orizzonti.
Nel 2021 non si può ancora morire di lavoro e sul lavoro. La sicurezza va garantita, organizzata (non solo per legge) attraverso la negoziazione, la creazione di regole condivise che fanno del luogo di lavoro il luogo massimo di partecipazione e di espressione della creatività, d’ingegno, cercando il modo migliore per non soffrire o morire. La sicurezza del lavoro non è solo un problema d’informazioni da dare ai lavoratori o di formazioni da far fare ai preposti, ai datori di lavoro, ottemperata la quale ci si mette a posto la coscienza. Essa è un mettere in discussione il contesto (produttivo, organizzativo, sociale, culturale) che produce il disagio, lo scarto, la non considerazione dell’umano e della propria storia. È attraverso una funzione critica esercitata collettivamente, dove la relazione prende il primato sulla produzione, che si potrà produrre una nuova cultura del lavoro su cui organizzare un’impresa sempre più sicura. Bisogna continuare a produrre una storia del lavoro umano, un modello organizzativo che permetta di esprimere la capacità inventiva e creativa dell’uomo e della donna per evitare, oggi come ieri, angosce, insicurezza, incertezza. Il torpore della mente inaridisce cognizioni ed emozioni con conseguenze sul piano della partecipazione alla vita aziendale e non solo, producendo una deprivazione in termini di benessere e un’aridità dello spirito.
La morte di Luana deve impegnarci a rimettere al centro la lotta per il buon lavoro. Il lavoro è vita, è relazione con l’altro, è costruzione, è generazione, è creatività, è comunità. La morte insensata di Luana ci porta a riflettere sul fatto che quando si rompe il rapporto con l’altro, si rompe anche il rapporto con la vita; se non si custodisce il fratello, non posso custodire la vita, non posso lavorare come esperienza di benedizione. Se Caino non è più “il custode” di suo fratello, diventa il suo assassino; se non c’è custodia, c’è omicidio, non esiste nessun livello intermedio di mutua indifferenza.
Adesso andremo tutti alla ricerca dei colpevoli, assolvendoci tutti dalle nostre responsabilità e trovando un capro espiatorio, ma se non vivremo questa morte, come “catastrofe vitale” non ci sarà rigenerazione; non ci sarà spirito vitale se non ci metteremo insieme a risolvere il problema e tutto tornerà come prima.
Penso che in questo periodo di vita pandemica e fra poco, si spera, di post pandemia, dobbiamo ripensare il lavoro in modo vitale per evitare morti inutili. Solo così potremo onorare Luana e che Dio l’accolga in gloria e benedica la sua famiglia.
Michele Del Campo
Pastorale Sociale e del Lavoro
Diocesi di Prato
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