Etichette farlocche e sostanze tossiche nei capi “Made in China”: i risultati dell’indagine Uip-Laboratorio Buzzi


Composizioni difformi nel 60 per cento dei casi rispetto a quanto riportato nelle etichette. Presenza di sostanze tossiche per la fauna acquatica e dannose anche per l’uomo bandite in Europa, ma senza restrizioni in Cina che determinano un’“importazione dell’inquinamento”. Mancanza di reciprocità negli scambi commerciali.

Sono alcuni dei risultati sulla sicurezza chimica dei capi di abbigliamento, realizzati dal laboratorio di analisi prove e ricerche industriali dell’Istituto Buzzi, per conto dell’Uip. La rilevazione – la seconda dopo un’analoga indagine del 2013 – è stata effettuata su 67 capi di abbigliamento, di cui 65 made in China, 2 made in Bangladesh e uno privo di etichetta di origine, acquistati dagli studenti del Buzzi in provincia di Prato, presso grossisti, ambulanti e negozi.
I capi sono stati sottoposti a doppia analisi: la prima effettuata dai ragazzi della classe V F, indirizzo chimico del Buzzi e la seconda da parte del professor Giuseppe Bartolini. direttore del laboratorio riconosciuto dalla Regione, accreditato per le analisi delle forze dell’ordine e di cui si servono anche le principali griffe della moda.

Sconfortanti i risultati, perfino peggiori dell’indagine di due anni fa: in tre capi di abbigliamento (una felpa, un abito femminile e un paio di jeans) sono stati rinvenuti coloranti azoici che possono liberare sostanze cancerogene, le ammine aromatiche. Si tratta di una sostanza vietata perfino in Cina.
Diverso il caso degli alchilfenoli etossilati, presenti nel 63% dei capi analizzati. Si tratta di sostanze chimiche inquinanti per l’ambiente, in passato largamente utilizzate anche nelle industrie del nostro Paese e vietate in Europa dal 2002: il loro discioglimento nei corsi d’acqua produce danni alla flora e alla fauna ittica, ma in Cina non sono vietati.
“La particolarità di queste sostanze, che sono dei tensioattivi, è di sciogliersi abbastanza facilmente in acqua – spiega Giuseppe Bartolini -. Il lavaggio di un capo che li contiene, quindi, significa dispersione nell’ambiente di contaminanti, dannose in alte concentrazioni anche per l’uomo. In Europa e in gran parte del mondo non si possono usare nella produzione ma ci troviamo ugualmente il problema attraverso la circolazione di prodotti come quelli esaminati. È per questo motivo che si parla di importazione dell’inquinamento”.

Mancanza di reciprocità
I parametri per la valutazione della sicurezza chimica dei prodotti della filiera moda sono diversi a seconda dei paesi. Particolarmente differenti sono le norme dell’Unione Europea e quelle della Repubblica Popolare Cinese. Al contrario di quanto si possa pensare, i parametri ecotossicologici cinesi sono per quasi tutti gli aspetti, ma ci sono eccezioni come per gli alchilfenoli etossilati (vedi sopra), più restrittivi di quelli europei. “Cina ed Unione Europea seguono criteri completamente diversi – spiega il presidente dell’Unione industriale pratese Andrea Cavicchi -. La Cina ha regole molto rigorose per i prodotti commercializzati nel loro mercato interno, ma non per l’export. L’Europa invece fa riferimento direttamente alla produzione: il Reach, con il suo rilevante carico di cautele e adempimenti, vale indipendentemente dai percorsi della successiva commercializzazione. Semplificando, la Cina legittima l’esportazione anche di propri prodotti con una connotazione ecotossicologica pericolosa; ma nello stesso tempo, con elementi anche ingiustificatamente restrittivi, limita le importazioni dall’estero. In questo modo siamo penalizzati due volte: riceviamo merce di dubbia sicurezza e nello stesso tempo i nostri prodotti hanno vita difficile a passare le dogane cinesi”. Le analisi del Laboratorio del Buzzi, da questo punto di vista, parlano chiaro: 18 capi su 67 (il 27%) non sarebbero commercializzabili in Cina perchè fuori dai parametri di solidità ad acqua, sudore, sfregamento e saliva.

Etichette farlocche
Grossi dubbi anche sulla veridicità delle etichette dei capi cinesi. Il 60 per cento degli indumenti esaminati avevano composizioni diverse rispetto a quelle dichiarate. Soltanto per fare alcuni esempi: una felpa “100 per cento cotone” era in realtà di poliestere. Di cashmere e lana, in tutti i campioni che lo dichiaravano, non c’era nemmeno una traccia.

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