Il capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina, è stato assolto dall’accusa di essere il mandate della strage del Rapido 904: il 23 dicembre del 1984, il treno esplose all’interno della grande galleria dell”Appennino, tra Vernio e San Benedetto Val di Sambro, provocando 17 vittime e 267 feriti. Trent’anni dopo quell’attentato, per la giustizia i colpevoli restano ‘solo’ i mafiosi Pippo Calò, Guido Cercola e Francesco Di Agostino, e un artificiere tedesco, Friedrich Schaudinn, tutti già condannati.
Riina era finito nell’inchiesta nel 2011, quando la procura di Napoli chiese e ottenne per lui una misura cautelare. Le indagini vennero poi trasmesse per competenza territoriale a Firenze. La Corte d’assise lo ha assolto “per non aver commesso il fatto”, ma con formula dubitativa: “Manca la prova piena che sia colpevole – ha spiegato il difensore di Riina, l’avvocato Luca Cianferoni – Praticamente è la vecchia insufficienza di prove”. Il pm Angela Pietroiusti aveva chiesto l’ergastolo.
Secondo l’accusa, la colpevolezza del capo dei capi non deriva dalla deduzione che “non poteva non sapere” ma dal fatto che “Riina esercitava potere – ha detto il pm nella requisitoria – Solo con la sua autorizzazione è stato fornito l’esplosivo a Calò e solo Riina poteva deciderne la destinazione. Riina è il determinatore, lui dà questo contributo decisivo”.
La ricostruzione dei pm napoletani, sposata in pieno da quelli di Firenze, lega l’attentato del Rapido 904, nel 1984, a quelli del 1992-1994: dagli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alle autobombe agli Uffizi, Roma e Milano. Ci sono analogie nell’esplosivo e nei telecomandi, ha spiegato il pm Pietroiusti, e poi quella fu la prima strage compiuta con modalità terroristica – colpendo nel mucchio, senza un obiettivo definito, come un magistrato o un politico – e fuori dalla
Sicilia. Non solo, anche quella del Rapido 904 era legata al ‘maxiprocesso’: l’attentato del 1984 fu una reazione ai mandati di cattura, quelli degli anni Novanta furono per vendicarsi di chi lo aveva istruito – Falcone e Borsellino – e dei politici che non lo avevano ‘aggiustato’, Salvo Lima.
Riina, che ha seguito tutto il processo in videocollegamento dal carcere di Parma, ha preferito non assistere alla lettura della sentenza: “Alla fine – ha commentato il suo legale – questi processi rendono simpatici anche imputati difficili come Salvatore Riina. Il convitato di pietra è lo Stato, che non fa una bella figura, nella sua parte cosiddetta di intelligence. I servizi segreti sono il vero problema della giustizia penale. Bisogna aprire gli armadi con gli scheletri”.
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