Per Jessica Buccieri oggi si sarà eclissato il sole, ma il ricordo del viaggio in India compiuto lo scorso novembre, quello no. Nata nel 1993, attualmente studentessa del Datini, Jessica ha partecipato al progetto “Cittadini del mondo” realizzato dalla Polisportiva Aurora in collaborazione con le suore domenicane di Iolo e sostenuto dalla Regione Toscana, dall’azienda usl e dal comune di Prato: per 17 giorni ha lavorato come volontaria all’interno del manicomio di Cochin, nel sud dell’India. Un’esperienza documentata dalla mostra fotografica “Cittadini del mondo. Passaggio in India 2014” allestita nello spazio espositivo di via Firenzuola e conclusasi ieri. Le immagini della mostra hanno offerto a Jessica l’occasione per ricordare quel viaggio che ha costituito una cesura nella sua vita. E’ riuscita ad entrare nel progetto, che prevedeva sei posti studenteschi, grazie alla sua partecipazione ad un percorso di peer education nelle scuole (strategia educativa che favorisce la comunicazione tra adolescenti) promosso dall’usl con l’obiettivo di diffondere il valore della sessualità consapevole: è la comunicazione con l’altro da sé l’interesse di Jessica, ciò che l’ha spinta a partire per un viaggio che sin dall’inizio si pone come un viaggio verso l’ignoto: “Sono partita per l’India senza aspettative, né positive né negative” racconta la ragazza “mi imponevo di non aspettarmi e quindi di non pensare a niente di ciò che avrei trovato o non trovato laggiù: la verità è che avevo paura”. Arrivata la mattina, il pomeriggio Jessica è già con gli altri volontari nel manicomio di Cochin. “Le nostre mansioni nel manicomio andavano dalla riverniciatura dei refettori al servizio pranzo all’organizzazione di giochi. Abbiamo cercato di essere discreti, di far capire che eravamo lì per aiutare, ma mettendoci alla pari con loro, senza alcuna volontà di insegnamento”. La dura realtà del manicomio indiano mette alla prova, ma fa anche crescere. “L’esperienza è stata amara. Il manicomio indiano non ospita solo coloro cui è stata riconosciuta una malattia mentale: ad esempio – ed è stata una delle storie che mi ha colpito di più – due ragazzi di 15 anni si trovavano lì perché un giorno, avendo preso il treno sbagliato, si erano persi e la polizia li ha considerati pazzi e li ha portati in manicomio. Sono molto poveri e non hanno potuto mettersi in contatto con le famiglie, che si trovano addirittura nel nord dell’India. Storie del genere mettono i brividi, ma costringono ad aprire gli occhi, ad uscire in qualche modo dall’adolescenza”. L’adolescenza per Jessica finisce in India, dove, a contatto con la sofferenza, trova in sé la forza per affrontare da sola le proprie paure, quelle immediate, nel manicomio, ma anche quelle riguardanti il suo futuro: “L’India per me è stata una tappa fondamentale perché è lì che ho capito la strada che devo prendere: ho capito che devo fare un lavoro che mi permetta di dedicarmi agli altri. Lontana da qualsiasi senso di superiorità”. Nel futuro di Jessica l’India si pone come ricordo indelebile, come tappa, come insegnamento: quello racchiuso nel saluto namasté, “mi inchino alle qualità divine che sono in te”.