Quando sparò al brigadiere Giuseppe Giangrande, Luigi Preiti sostiene di essere stato “depresso e disperato. Un uomo senza lavoro perde la dignità. Certi stati d’animo alla lunga ti portano a gesti estremi”. Ma le sue parole, in un’intervista a Repubblica, vengono respinte al mittente dalla figlia del carabiniere, Martina, che il perdono a chi ha reso paralizzato suo padre non lo ha “mai preso in considerazione”, come non ha “mai preso in considerazione la persona che lo chiedeva”. E’ netta la figlia di Giuseppe Giangrande, ferito durante la sparatoria davanti a palazzo Chigi mentre era in corso l’insediamento del Governo Letta, il 28 aprile 2013, e che da allora lotta per riconquistare una parvenza di normalità, alternando la vita a Prato con lunghi ricoveri nell’istituto di Montecatone, a Imola (Bologna), dove è ancora oggi.
Nell’intervista (leggi l’articolo), Preiti – condannato a 16 anni – spiega che quel giorno era “depresso. La mia vita era un disastro: senza lavoro, senza soldi, non potevo vedere mio figlio. Oggi il peso di ciò che ho fatto e la pena che devo pagare mi opprimono la coscienza. E rendono buio il mio futuro”. Aggiungendo, su Giangrande, “se potessi mi sostituirei a lui, mi farei carico della sua sofferenza: prego ogni giorno che possa guarire presto. Ho scritto a sua figlia”. La depressione e anche l’assunzione di cocaina l’avrebbero portato a un gesto estremo. L’idea di andare a Roma a sparare, spiega nella lettera in cui risponde alla domande del giornalista, è nata “dalla disperazione e dalla consapevolezza che sarei diventato, anzi, lo ero già, un’altra vittima della crisi”.
“Questo è più o meno quel che ha detto fin dall’inizio – ribatte però oggi Martina Giangrande all’agenzia Ansa – Ma io ho un’idea: una persona si può dare tutte le giustificazioni che vuole, ma poi rimane l’atto che uno ha fatto”. E quell’atto ha avuto ripercussioni ineludibili: “Io, per colpa di Preiti, da 16 mesi vivo in ospedale con mio padre, a lottare assieme per una vita quanto meno dignitosa”. A Martina nessuno aveva preannunciato la pubblicazione dell’intervista. L’ha letta stamattina al bar. “In questi giorni sono a Prato per seguire i lavori di ristrutturazione che stiamo facendo per adeguare la casa alle esigenze di papà. Al bar ho aperto il giornale. Si può immaginare la mia reazione. Sono rimasta senza parole”.
Nell’intervista Preiti fa riferimento a una lettera che le avrebbe scritto, “ma io penso si riferisca alla prima che abbiamo ricevuto. Ma parliamo di oltre un anno fa…. A noi non ne è arrivata nessuna altra”. Allora Martina e il padre non risposero: “Cosa rispondevo a fare?”. Delle parole di oggi Preiti, che sostiene anche di ricevere attestati di solidarietà mentre è in carcere, Martina non le ha riportate al padre, che non ne sa nulla. “Non essendo lì con lui a Montecatone ho preferito non farglielo sapere”. Perché, racconta, “papà purtroppo non sta bene. A dicembre era tornato a casa, poi per una sciocchezza, un raffreddore che però è diventato una polmonite, è dovuto tornare in ospedale. E’ anche tornato in coma. Noi viviamo così, tra alti e bassi continui. Viviamo alla giornata”.
Le scuse di Preiti, aggiunge la ragazza in una intervista a Visto in edicola giovedì, “non permetteranno a mio padre di rialzarsi dalla sedia a rotelle e a me non restituirà la mia vita di ventiquattrenne che avevo prima”. “Mi auguro – conclude – almeno che questa richiesta di perdono da parte di Preiti non comporti in appello alcuna riduzione della sua condanna a 16 anni”.
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