Adele Ratti ha vinto l’ottava edizione del Concorso sulla sicurezza nei luoghi di lavoro riservato alle scuole superiori e lo ha fatto con un racconto che ha letteralmente gelato giuria e pubblico. Un racconto di un incendio, in una fabbrica di cinesi alla periferia di Prato. Adele nel suo racconto ha previsto, con un mese di anticipo, quanto è poi tragicamente accaduto in via Toscana il 1 Dicembre. Quando è successa la tragedia, ha detto, non ci poteva credere nemmeno lei.
Le scuole che hanno partecipato al concorso sono 6, Gramsci Keynes, Rodari, Datini, Buzzi, Liceo Brunelleschi e Copernico. Complessivamente 220 i lavori arrivati alla Provincia fra manifesti (150), spot (20) e racconti (50). Come è già stato annunciato, per il progetto di manifesto promozionale quest’anno ha vinto Lorenzo Scaduto della 4AGR dell’istituto Datini. E’ sua l’immagine coordinata con lo slogan “Hai una testa? Usala” che caratterizza la comunicazione. Anche per lui premio di 550 euro. Seconda classificata e premio di 300 euro, Diane Villenas della 3C del liceo artistico Brunelleschi. Per la sezione spot (slogan e messaggio pubblicitario) prima Najim Kaouthar, 3K del Buzzi, anche lui con 550 euro di premio. Secondi Kevin Maggi, Edoardo Bettazzi e Leonardo Bonechi della 3IS del Liceo Copernico con un riconoscimento di 300 euro.
QUI DI SEGUITO ECCO IL RACCONTO VINCITORE SCRITTO DA ADELE RATTI
La faccia degli angeli
Mia madre era una bugiarda; lo so.
Lo scoprii all’età di sei anni, quando morì mio padre.
Piangevo e piangevo e fu allora che mia madre mi disse: “Bambina mia, non devi piangere: le lacrime, sai, rattristano le persone che ti stanno attorno; tu, invece, devi sorridere sempre, come gli angeli, così chiunque ti guardi, riderà a sua volta. Con un semplice sorriso, vedi, puoi donare tanta felicità…”
Eppure mia madre mentiva: ero solo una bambina, è vero, ma questo non mi impediva di sentire i suoi singhiozzi nel cuore della notte, né di notare i suoi occhi gonfi la mattina successiva, mentre fingeva che tutto andasse bene.
E poi… poi fu costretta a prendere la decisione che avrebbe cambiato le nostre vite: lasciammo la nostra casa, il nostro passato, la Cina, per avventurarci in cerca di un nuovo futuro. Dopo un viaggio che sembrava infinito, giungemmo in Italia, a Prato, dove si trovava il capannone che sarebbe diventato la nostra casa.
Era una fredda mattina d’inverno: il vento ci accompagnava con le sue urla; sembrava volerci dire di tornare indietro, di lasciare quel luogo sperduto nella periferia della città, ma, sorda a questo avvertimento, mia madre proseguì con una rassegnata determinazione, ed andò in cerca del proprietario.
Questo fece solo una o due domande e rifiutò di vedere i fogli che mia madre gli offriva; ben presto, fummo accompagnate all’interno del capannone: c’erano molte persone, ma nessuna alzò gli occhi quando entrammo.
L’ambiente era di un grigiore spaventoso e le facce dei presenti sembravano averne assunto lo stesso orribile colore.
Il proprietario urlò qualcosa in una lingua strana, poi, fece segno di seguirlo su per delle scale non molto stabili, che portavano ad un’altra grande stanza.
Qui si trovavano una ventina di brande; il freddo mi punse all’improvviso, non c’erano vetri alle finestre.
Strinsi forte la mano di mia madre e la guardai, sperando che mi avrebbe detto che era solo un brutto sogno, e che saremmo tornate a casa; ma mia madre non disse niente, e non osò neppure guardarmi: teneva la testa alta, ma dietro a tutta quell’ostentata forza, non potei non vedere una piccola barca su un mare in tempesta.
Lasciammo su un letto i nostri pochi averi e scendemmo: era ora di iniziare a lavorare ed io dovevo aiutare mia madre.
Grandi macchine mai viste prima mi circondavano, mentre io guardavo gli altri lavoratori con immensa curiosità: non erano affatto felici né tantomeno interessati ai risultati che le macchine, guidate dalle loro abili mani, sembravano creare.
Nessuno dei lavoratori indossava guanti o cappelli; “Devono avere molto freddo” pensavo
ingenuamente. Intanto eravamo giunte alla postazione di mia madre, che silenziosamente iniziò a lavorare con vari pezzi di stoffa; io la aiutavo come meglio potevo, ma, forse ancora stanca a causa del viaggio, presto mia addormentai.
Una volta sveglia, notai che il sole era già calato da tempo; erano state accese delle luci fioche e si poteva ancora sentire il ripetitivo rumore delle macchine; tirai dolcemente la manica di mia madre, chiedendole di venire a letto.
“Non ancora, cara” mi rispose con gli occhi velati, “Devo finire questo vestito… tu vai, intanto, ti raggiungo tra poco.”
Ma era un’altra bugia: mia madre si coricò solo poco prima dell’alba.
Così trascorsero le nostre giornate, sempre uguali, grigie come il capannone in cui vivevamo; e poi, venne quel giorno, quell’orribile giorno.
Come al solito, aiutavo mia madre, divenuta, con il tempo, sempre più stanca, quando sentimmo delle voci provenire da fuori; il proprietario urlava come un forsennato e correva da una parte all’altra del capannone.
Nessuno riusciva a capirne il motivo, poi, la causa del suo comportamento cadde sui nostri cuori come un masso troppo pesante perché alcuno riuscisse a sollevarlo: fiamme minacciose stavano rapidamente divorando il capannone.
Tra la confusione e le grida generali, mia madre mi trascinò per mano al piano di sopra.
Una sirena si stava avvicinando, arrivarono dei pompieri, ormai in ritardo per spegnere il fuoco che stava salendo le scale e che ci avrebbe raggiunto in poco, pochissimo tempo.
Mia madre lanciò un’occhiata fuori dalla finestra: i pompieri erano proprio lì sotto.
Lei non parlò, respirava affannosamente, le lacrime cominciarono a rigare le sue guance; mi abbracciò, stringendomi forte a sé, senza che io capissi cosa stava realmente accadendo: mi baciò sulla fronte e mi spinse giù dalla finestra.
Due braccia vigorose mi afferrarono, ma io non alzai gli occhi verso il mio salvatore: continuai ad osservare la finestra dov’era mia madre, e tra il fumo e le fiamme la vidi sorridere, perché il sorriso sta sulla faccia degli angeli.
Commenti